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DISSESTO IDROGEOLOGICO: NECESSITA’ DI COMPETENZA

Che il territorio italiano sia particolarmente fragile è testimoniato dal fatto che il 68% circa delle frane in Europa avvengono nel nostro paese. Siamo una “frana” nella prevenzione. In compenso siamo degli assi negli interventi in emergenza ex-post. Abbiamo sviluppato la migliore protezione civile del mondo. E tutti imparano da noi. Ma tutto questo non è particolarmente efficiente.

Lettera aperta dell'Ing. Catello Masullo (vice presidente INARSIND Roma) a Radio Radicale in merito al dissesto idrogeologico e alla necessità della competenza degli ingegneri idraulici:
"Spettabile rubrica IO ASCOLTO di Radio Radicale e da assiduo ascoltatore ho appena finito di ascoltare la puntata odierna relativa al rischio idrogeologico per la città di Roma. Nel complimentarmi per la iniziativa e per la qualità, al solito , alta dell'approfondimento, vorrei però , sommessamente far notare che, purtroppo, anche radio radicale cade nell'equivoco largamente diffuso in tutti i media. E cioè , ogni volta che si parla di dissesto o pericolo idro-geologico, i giornalisti ritengono, erroneamente, che competenti siano solo ed esclusivamente i geologi. Faccio, sempre sommessamente, notare che la parola è composta da "idro" e da "geologico". Già solo questa doppia composizione semantica dovrebbe indurre il dubbio che non solo di esperti geologi ci sia bisogno, ma anche di esperti idraulici. E, anzi, è il caso di sottolineare che una parte rilevante degli aspetti relativi ai problemi idrogeologici sono di ESCLUSIVA PERTINENZA, PER LEGGE DELLO STATO, degli ingegneri. Ed in particolare degli INGEGNERI IDRAULICI. Gli UNICI ad avere competenze specifiche, ed a poter redigere e firmare le relative valutazioni, relazioni e progettazioni in merito a :
a) previsioni ed elaborazioni idrologiche (relative alle precipitazioni meteoriche ed alle portate idriche che esse generano);
b) calcoli e dimensionamenti idraulici;
c) determinazione e perimetrazione delle aree a rischio di inondazione;
d) progettazione delle opere e misure necessarie a contrastare (sia e, soprattutto, a livello di prevenzione, che di riparazione di eventuali danni) i pericoli relativi al dissesto idrogeologico;
e) calcoli e progettazioni statiche-strutturali;
f) calcoli e progettazioni geotecniche;
g) computi metrici estimativi delle opere;
h) specifiche tecniche di esecuzione e capitolati speciali di appalto;
i) piani di sicurezza.
Senza nulla togliere alle competenze dei colleghi geologi, che sono indispensabili per la redazione della relazione geologica, che deve obbligatoriamente accompagnare ogni progettazione in cui vi sia una relazione tra strutture e suolo, ritengo che quando si voglia approfondire, anche a livello giornalistico, i delicati temi del dissesto idrogeologico, sia indispensabile avvalersi delle competenze degli ingegneri idraulici.
Ed anche dal punto di vista squisitamente lessicale, mi permetterei di fare qualche osservazione. In questi giorni l’opinione pubblica romana è scossa dalle conseguenze delle piogge intense che si sono riversate sulla capitale, provocando la chiusura della metro, il blocco del grande raccordo anulare nello stesso punto in due giorni consecutivi, il blocco della città in sostanza. Come (quasi) sempre i media parlano di eccezionalità degli eventi meteorologici. Sempre più spesso si usano (impropriamente) locuzioni e neologisimi come “bomba d’acqua”, “tropicalizzazione del clima”, “cambiamenti climatici”, “piogge mai viste prima”, “dissesto idrogeologico”, e simili.
Ogni volta, puntualmente, da una parte ci si strappano le vesti e si piangono i danni ed i disagi (quando non anche le vittime) e si fanno proclami della serie “mai più!”, dall’altra si cade dalle nuvole, della serie “nessuno poteva prevederlo, “evento senza precedenti”, “tragica fatalità”, “inarrestabile furia degli elementi”, e così via cantilenando.
Che il territorio italiano sia particolarmente fragile è testimoniato dal fatto che il 68% circa delle frane in Europa avvengono nel nostro paese. Siamo una “frana” nella prevenzione. In compenso siamo degli assi negli interventi in emergenza ex-post. Abbiamo sviluppato la migliore protezione civile del mondo. E tutti imparano da noi. Ma tutto questo non è particolarmente efficiente. Perché, come numerosi studi scientifici dimostrano, spendiamo somme spropositare per riparare i danni post-evento, che si sarebbero potute evitare ove si fossero spese somme di gran lunga inferiori in prevenzione (anche di 10 o 15 volte). Lo dice anche la saggezza popolare : “prevenire è meglio che curare”.
Ma la politica non ci sente da questo orecchio. I soldi spesi in interventi eseguiti in sperduti anfratti, letti di torrenti, versanti di colline e montagne, non si vedono e quindi non portano voti. I soldi spesi in emergenza post catastrofe, per riparazione di drammatici danni e risarcimenti a danneggiati, invece hanno un grande impatto mediatico. E quindi portano voti. Sarà cinica, e forse anche un po’ grossolana, come analisi, ma se fate due più due, vi accorgerete che non siamo troppo lontani dalla realtà. E’ il dissesto ideologico, la maggiore causa del dissesto idrogeologico.
La maggior parte dei disastri, sono disastri annunciati. E spesso si ripetono nelle stesse aree geografiche. Basta dare un’occhiata alle liste delle alluvioni ed inondazioni (si veda la appendice alla fine di questa lettera aperta, tratta dalla sempre ben informata Wikipedia). Ci sono ad esempio zone come quelle della Liguria e della Campania meridionale ove periodicamente si contano i morti. E non è casuale. Provate a prendere una cartina del mediterraneo. Con un righello tracciate delle linee che vanno dallo stretto di Gibilterra all’Italia. Le linee di mare più lunghe, senza che siano interrotte da isole o coste, sono quelle che puntano a nord in Liguria ed a sud sulla Campania meridionale. Queste linee vengono chiamate dagli ingegneri con il termine “fetch”. E non sono altro che corridoi sul mare aperto dove più a lungo possono svilupparsi venti senza che siano interrotti da qualche ostacolo. E possono quindi caricare l’aria di grande umidità presa dal mare. E generare le più potenti perturbazioni atmosferiche. Che sono la causa delle più grandi alluvioni. Ed ecco che periodicamente si verificano eventi importanti nelle zona di Genova e della penisola Sorrentina e relativo entroterra (disastri di Sarno, Quindici, Castellammare di Stabia, ecc.).
Il 4 novembre del 2011 a Genova cadono quasi 500 mm di pioggia in 5 ore. Esondano i fiumi ed i torrenti che esondano sempre in queste occasioni, Bisagno, Fereggiano, Sturla e Scrivia. Si è , al solito, parlato di evento mai accaduto prima. Ma non è così. Il 4 ottobre dell’anno prima, la quantità di pioggia era stata praticamente la stessa. Ed alluvioni gravi ci sono state in precedenza a Genova nel ’93, nel ’92 e nel ‘70 (quando i mm di pioggia furono addirittura più di 900). I danni ed i lutti a seguito di alluvioni non sono però sempre gli stessi. Moto dipende da quello che fa e da quello che non fa l’uomo. Enormi straripamenti di fiumi nel passato più o meno recente non hanno provocato gli stessi danni e lo stesso numero di perdite di vite umane degli ultimi tempi. Semplicemente perché la aree interessate dalle esondazioni non avevano insediamenti abitativi. Negli ultimi decenni le urbanizzazioni sono state, in alcuni casi, davvero dissennate e criminali. I cosiddetti “pianificatori” urbanistici dalla licenza edilizia facile hanno dimostrato di avere la memoria sempre cortissima. Ed hanno consentito di costruire in aree dove si sapeva benissimo che prima o poi sarebbero arrivate le acque straripate. Pochi sanno, ad esempio, che una alluvione del fiume Arno, farebbe oggi molti più danni di quella famosissima del 1966, che è stata immortalata dai tg di tutto il mondo. Perché sulle sponde del fiume, subito dopo l’evento disastroso, si è costruito moltissimo. Ci fu una vera e propria corsa alla licenza edilizia da parte di tutti gli enti territoriali competenti, per arrivare prima dei divieti di edificazione che di lì a poco la benemerita Commissione De Marchi (dal nome del grande ingegnere idraulico che la guidava) avrebbe istituito.
Ma non tutto va così male. Prendiamo l’alluvione di Sarno, Siano, Bracigliano e Quindici, del 5 maggio del ’98. Un evento tremendo, 159 morti. È un argomento che conosco abbastanza bene, essendo stato aggiudicatario della gara pubblica per la progettazione di una parte non irrilevante degli interventi post-emergenza. Siamo proprio in quella zona della Campania meridionale soggetta a ricorrenti alluvioni, a cavallo tra le province di Salerno, Napoli ed Avellino, di cui dicevo prima. Con suoli particolarmente fragili. Si tratta di terreni provenienti dalle eruzioni del Vesuvio, proiettati in aria negli scorsi millenni e ricaduti sui massicci carbonatici, i calcari di base, sui quali si sono addensati. In particolari condizioni, dopo lunghi periodi di pioggia, anche non particolarmente intensa, ed in aree acclivi, che abbiamo subito di recente un disboscamento oppure un incendio, questi strati di terreno, tecnicamente detti coltri piroclastiche, si staccano di schianto dalle rocce di base e creano le cosiddette “colate di fango superveloci”. Che vengono giù anche a 80 km all’ora. Ed hanno una potenza davvero devastante. Figuratevi che a Sarno, in quel tragico maggio, una di queste colate staccò di netto dalle fondazioni un palazzotto di tre piani, che era stato costruito, ovviamente, dove non doveva, e lo spostò, rigidamente, di oltre 300 metri. Miracolosamente i tanti giovani che stavano ballando ad una festa al secondo piano del palazzo, sono restati incolumi. Non è andata altrettanto bene ad altri 159 sventurati di quell’area. Non è di questi paesi colpiti dai lutti che voglio parlare. Ma di un altro paese. Che non è andato sulle cronache di alcun giornale o tg. Eppure si tratta di un comune che si trova proprio nella stessa area di Sarno, Siano, Bracigliano e Quindici. Con esattamente le stesse condizioni dei versanti. Piroclastiti su calcari, su forti pendenze. Si tratta di un paese proprio attaccato al Comune di Quindici, e cioè del comune di Forino, in provincia di Avellino. Dove quel giorno disgraziato si sono innescate colate di fango veloci del tutto simili a quelle che hanno mietuto tante vittime a pochi chilometri di distanza. Ma a Forino non c’è stato nessun morto. E nemmeno un ferito. Perché quel territorio si era dotato, negli anni precedenti, di opportune opere di prevenzione. Non di opere faraoniche. Opere flessibili anti-erosione, opere di contenimento dei versanti con tecniche di ingegneria naturalistica. E, soprattutto, una serie di piccole vasche per la raccolta delle future colate di fango. Che riprendevano la tradizione delle antiche bonifiche borboniche. Che usavano queste vasche come accumuli di detriti che venivano dai monti e come cave di sabbie per le costruzioni. Con uno splendido equilibrio. La natura ogni tanto colmava queste vasche. E gli uomini, pian piano, le svuotavano. Per lasciarle saggiamente vuote ad accogliere le prossime colate. E così è avvenuto a Forino il 5 maggio del ’98. Le colate hanno trovato le vasche vuote e le hanno colmate. Senza uccidere nessuno. Ne sono testimone diretto. Avendo personalmente curato la progettazione e la direzione dei lavori di realizzazione di tutti questi interventi a Forino. Esempio poco clamoroso. Che non ha attirato alcun cronista. Di “normale” manutenzione del territorio. Ma anche valido esempio della validità del detto di saggezza popolare già ricordato : prevenire è meglio che curare.
Provo infine a riassumere le principali cause delle catastrofi e dei lutti provocati dal dissesto idrogeologico, dando anche qualche cenno sui possibili rimedi:
1) Scelleratezza urbanistica: permettere di costruire dove i tecnici competenti sconsigliano di costruire, trattandosi di zone a rischio di alluvione o di frana o di dissesto, è da stolti o da criminali; non sarà il caso di smettere di farlo? I programmi di tutte le forze politiche, nessuna esclusa, contengono parole altisonanti ed impegni solenni di lotta al dissesto idrogeologico. Ma, dopo le elezioni, i buoni propositi restano solo chiacchiere (di quelle che la antica saggezza partenopea accomunava alle tabacchiere di legno, nel novero degli oggetti non accettati dal banco dei pegni);
2) Eccessivo consumo di territorio, con disboscamenti, cementificazioni ed impermeabilizzazioni del terreno: sarebbe semplice ovviare. Da una parte vietare ulteriori consumi di territorio, permettendo nuove costruzioni solo nella zone già urbanizzate, densificando e rottamando la edilizia di scarsa qualità del dopoguerra. E dall’altra imponendo il cosiddetto criterio della “invarianza idraulica”. Se, cioè, un determinato territorio, prima di realizzare un intervento di trasformazione, produce una certa quantità di acqua in occasione di determinate precipitazioni meteoriche, dopo la trasformazione deve mantenere costante questa quantità di acqua prodotta. Questo significa che, se si impermeabilizzano porzioni più o memo vaste di tale territorio, riducendo quindi le naturali capacità di ritenzione idrica del terreno originario, è necessario ed obbligatorio realizzare opere di cattura ed immagazzinamento delle acque di pioggia intensa, per poi restituirle alla natura solo successivamente allo scroscio di pioggia. In modo tale da evitare ogni danno da alluvione. Realizzando quindi quello che gli ingegneri idraulici definiscono la “laminazione delle piene”.
3) Mancata realizzazione di opere di manutenzione idraulica: non pochi disastri sono causati dalla incuria, dalla ridotta capacità di portata del reticolo idrografico a causa di ostruzioni, interramenti, abbandoni di rifiuti ingombranti, crollo di alberi ed arbusti, ecc. . Le operazioni di manutenzione idraulica andrebbero effettuate con regolarità, e consentirebbero, a conti fatti, di spendere meno e meglio, e, soprattutto, di evitare di piangere vite umane perdute;
4) Mancata realizzazione di opere idrauliche di accumulo e regolazione: l’acqua è elemento fondamentale di vita. Ma può causare danni e morti sia quando ce n’è troppo poca, sia quando ce n’è troppa. Occorre quindi usare la saggezza del buon padre di famiglia. Che mette da parte le risorse nei tempi grassi per i tempi delle vacche magre. E quindi ci vogliono le vituperate dighe. Che immagazzinano le acque quando scorrono impetuose e possono causare danni e vittime, per poterle restituire quando piove poco e ce n’è più bisogno, ad esempio per irrigare i campi d’estate. Basta studiare un po’ di storia, anche recente, per apprendere, ad esempio, che la città di Roma andava regolarmente sott’acqua tutti gli anni fino a pochi decenni orsono. Tanto è vero che le autorità papaline avevano organizzato un capillare servizio di barchini che percorrevano le strade romane allagate per distribuire pane agli abitanti costretti a casa dalle alluvioni, i quali lo ritiravano dalle finestre. Tutto questo è diventato solo un ricordo storico, grazie agli imponenti interventi idraulici dei cosiddetti “muraglioni”, ma anche grazie alle grandi dighe realizzate su alto e medio corso del Tevere, che consentono di “laminare” le piene del fiume stesso.
5) Mancata realizzazione di opere di presidio contro erosioni, frane e dissesti idrogeologici : gli specialisti della materia conoscono perfettamente quali sono i versanti in frana, quali sono gli alvei dei corsi d’acqua in erosione, quali sono le aree a rischio di dissesto idrogeologico, e sono perfettamente in grado di progettare gli interventi atti a scongiurare le catastrofi. L’investimento più produttivo che possiamo fare è quello nella salvaguardia del nostro capitale umano e del nostro territorio (l’unica nostra specifica risorsa non riproducibile dai nostri concorrenti diretti nell’attrarre flussi turistici) . Diamo quindi fiducia ai (pochi) decisori politici che lo hanno capito."

di: Catello Masullo, Ingegnere idraulico - Roma, 22 giugno 2014

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